Pubblicazioni - Articoli

Home / Pubblicazioni - Libri /

Quartetto pericoloso/ Il nuovo asse protezionista sul commercio

Quartetto pericoloso/ Il nuovo asse protezionista sul commercio

Le notizie che giungono da Taormina e dintorni sul commercio mondiale sono inquietanti. E sono anche difficili da comprendere sia per lo specialista sia per il cittadino che vuol vederci chiaro sulle cose del mondo.  Partiamo da un dato di fatto. Da quasi vent’anni e più non riusciamo a concludere cosiddetti accordi multilaterali sul commercio estero, ossia quei trattati stipulati tra molti stati e che intendono o abbassare le tariffe doganali, o modificare i cosiddetti standard tecnici del commercio. Si tratta delle regole che sovraintendono alla salubrità e alla non dannosità dei prodotti scambiati, della compatibilità delle misure tecniche dei manufatti che debbono l’un con l’altro essere compatibili, sino a impedire i cosiddetti dumping sociali, ossia eccessive differenziazioni tra regimi salariali e condizioni di lavoro che preformano il valore delle merci. Questo era il cosiddetto Free Trade, ossia il libero commercio che è durato sempre in presenza di una leadership unipolare: nell’Ottocento il Regno Unito, nel Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti. Nel periodo di mezzo, quando l’unipolarismo non c’era più e gli imperi crollarono in Europa, nacquero i cosiddetti nazionalismi economici, si elevarono barriere doganali e tecniche, e questa fu la concausa più profonda che scatenò la tempesta della crisi del 1929, da cui si uscì con le riforme del New Deal e il riarmo per la seconda guerra mondiale. Da quel secondo dopoguerra, sino agli anni Ottanta, si procedette a fatica tra mille contraddizioni. Mentre a livello mondiale, in una sorta di piano sopraelevato, si predicava e si operava per il Free Trade, creando il WTO e le altre istituzioni finanziarie atte a far circolare liberamente i capitali nel mondo, nei piani inferiori del pianeta si crearono robusti spazi territoriali protezionistici che  evitavano la concorrenza nei confronti di insiemi di stati  che tuttavia all’interno di quel muro di cinta abolivano dazi e ostacoli di qualsivoglia natura per il libero scambio delle merci e dei capitali. Il più importante di questi spazi, protezionistici all’esterno e liberisti all’interno, era il Mercato Comune Europeo, poi Unione Europea a cui facevano e fanno corona i Nafta ( USA, Canada, Messico), il Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) seguiti da lontano dal tentativo di fare altrettanto con quel gran numero di stati che si affacciano sul Pacifico, dall’Asia al Sud America, con l’Asean.  La Russia, dal canto suo, ha creato spazi siffatti con taluni degli stati che appartenevano alla dissolta Unione Sovietica. Ma la spinta del commercio mondiale, sino a circa un decennio orsono, è stata tanto forte da cercare di collegare i due piani di questo mondo bipolare, ossia quello degli accordi tra una molteplicità di stati e quello degli accordi tra un numero limitato di stati. La globalizzazione finanziaria ha del resto agito in questo senso, sino a quando non ha visto esaurirsi la sua spinta propulsiva. Durante la Presidenza Obama si è cercato, senza successo,  di stipulare Accordi Transatlantici e Accordi Transpacifici, quasi come se gli USA volessero di nuovo protendersi a un dominio imperiale del mondo che rafforzasse il loro ruolo di esportatori della sicurezza mondiale sul piano delle relazioni internazionali. Quel tentativo imperiale è fallito, come è noto, e il Presidente USA Donald Trump ha più volte dichiarato che vuol sostituire ad esso o gli accordi bilaterali tra stati oppure la cancellazione degli accordi tra stati sopra ricordati, a partire dal Nafta e dal Mercosur. Rimarrebbero solo gli accordi bilaterali che, in effetti, sono la norma da molti anni su scala mondiale, norma che è soprattutto il frutto del pesante crollo del commercio mondiale che si è verificato da circa venti anni, per il restringimento della domanda interna mondiale, per l’inizio della deflazione secolare, per l’instabilità delle relazioni internazionali e dei rapporti di potenza tra USA , Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina. Alcuni di questi stati, similmente all’India, sono tanto esportatori di merci industriali, quanto di merci agricole, quanto di servizi del cosiddetto commercio virtuale, come le piattaforme del cosiddetto internet delle merci monopolizzate da Gooogle, Amazon, etc.etc. Nel commercio mondiale c’è un grande disordine sotto il cielo e la navicella del libero commercio naviga a fatica, come se fosse tra un mare di ghiacci. La storia potrebbe ripetersi: se il commercio mondiale si blocca, il sistema arterioso della vita economica mondiale, sottolineo mondiale, potrebbe avere una serie di trombosi che porterebbero all’infarto, come successe nel 1929, quando più di un terzo del commercio mondiale  assunse la forma del baratto tra merci, tanto si erano moltiplicati le trombosi e i collassi tra le membra viventi del pianeta. Donald Trump, che ha davanti a sé gli Stati Uniti d’America impoveriti dall’eccesso di esportazione all’estero di capitali e di impianti manifatturieri, che seminano nuovi raccolti in terre straniere e che quando rimpatriano parte di quei guadagni li reinvestono nella finanza anzichè nell’industria produttrice di posti di lavoro, il Presidente Trump pensa di far tornare gli USA agli antichi splendori grazie a un protezionismo totale, ossia in entrata e in uscita. E grazie a un commercio mondiale che abbia quella che definisce una più ragionata gestione, ossia più confacente a quelli che crede gli interessi immediati degli USA. Trump crede di poter far ciò  innalzando barriere doganali tanto tariffarie quanto tecniche. Su questa scia sono da tempo pronti a seguirlo soprattutto la Francia, soprattutto l’India, soprattutto molte nazioni sud americane. Non c’è da stupirsi: sono tutti paesi per tradizione statalisti sul piano del commercio mondiale e che si ostinano a negare quella che è invece la vera struttura di codesto commercio. Ossia, come ha dimostrato il Premio Nobel Paul Krugman, il fatto che la gran parte dei flussi del commercio mondiale avvengano non tra stati, ma tra imprese, tra imprese che debbono essere libere di agire e di autodeterminare le regole di codesti flussi. Guai se essi si interrompono per interventi non commisurati e non coordinati tra le filiere produttive e tra i meccanismi di scambio tra prodotti finiti e non finiti, tra catene di offerta e di domanda, tra imprese e tra cluster di imprese. Trump, Macron e gli aspiranti a un ritorno a forme di protezionismo assoluto, non comprendono che ciò che fa girare la ruota del commercio mondiale, e quindi della crescita mondiale, è l’interconnessione tra i reticoli produttivi e di valorizzazione del lavoro prodotto dalle imprese, da tutte le imprese, tanto da quelle esportatrici quanto- anche se in misura minore- dalle imprese che  vivono principalmente della domanda interna che, come è noto,  anch’essa vive delle ricadute del commercio mondiale. Insomma, il protezionismo selettivo, gestito dalle imprese in cooperazione con uno stato che ne segue gli impulsi, è in generale benefico, mentre quello assoluto, che dallo stato promana per difendere settori che vivono solo di protezionismo, e quindi di rendita, e così facendo producono contromisure internazionali negative per altri settori, questo protezionismo è profondamente pericoloso. Ne sa qualcosa l’Unione Europea che con il protezionismo agricolo che dispiega in modo oltraggioso dinanzi agli agricoltori piccoli e grandi di tutto il modo, da più di cinquant’anni, ha indebolito e reso non sostenibile agronomicamente gran parte della produzione agricola europea per gli anni a venire, mineralizzandone la gran parte dei terreni un tempo fecondi. L’insegnamento, se un insegnamento ci sarà, dovrà valere per tutti, tanto per Trump, quanto per Juncker, Macron e compagnia.